C’è un’Italia che sarà sempre mia e che probabilmente invecchierà con qualche acciacco ma non passerà mai di moda perché è stata e verrà sempre ricordata come la migliore, più alta e sublime rappresentazione della cultura popolare nel mondo.
Oggi, proprio nei giorni che ricorderemo per aver definitivamente liquidato o nutrito il tentativo di uccidere il mondo della ristorazione popolare tipica Italiana, voglio ricordare soprattutto ai cuochi più giovani cosa accadde nel 1986 quando a Roma aprì il primo McDonald’s d’Italia.
L’apertura del primo fast food americano, l’arrivo in Italia proprio al centro di Roma, in Piazza di Spagna, del primo rivoluzionario modello di ristorazione industriale e commerciale, fu vissuto come un insulto alla cultura e all’arte della nostra nazione e di quella città d’arte in particolare.
Si scatenò una vera e propria rivolta.
Proteste e picchetti si susseguirono in Piazza di Spagna per giorni nel tentativo di impedire l’apertura dell’odiata tavola calda americana che rompeva ogni consuetudine culinaria.
Personalità dell’arte, attori, autori teatrali, politici, semplici cittadini, svariati rappresentanti del mondo della cultura e della politica si alternarono a ripetizione su un palco improvvisato in strada e cercarono di impedire l’insulto alla città sacra; avversavano la realizzazione dello scempio nel cuore di Roma; denunciavano l’impossibilità di considerare armoniosa la coesistenza di un McDonald’s di fronte ai palazzi del Bernini e del Borromini.
Si difendeva in definitiva l’armonia urbanistica della Roma Rinascimentale tutelando nel contempo la presenza della trattoria romana, elevando cioè l’immagine ed il valore della cucina popolare tipica quale pregio assoluto naturalmente connaturato al tessuto urbano più famoso al mondo.
Che bella consapevolezza oggi purtroppo perduta!
Ci si ergeva a difesa del senso estetico della “città infinita” brandendo in piazza abbacchio e fettuccine.
La cucina italiana tipica infatti, il mondo delle trattorie e delle mille osterie romane, la cultura del cibo popolare della nostra nazione erano considerati assolutamente contigui e connaturati alle più grandi espressioni artistiche del ‘500 e del ‘600.
Nessuno sconfinamento, nessuna invasione estetica nè culturale potevano porre una frattura, una divisione o turbare la città secolare consacrata alla sua arte, a questa grande rappresentazione di segni e consuetudini collettive, condivise e ritualizzate, alte e popolari al tempo stesso.
Insomma anche Caravaggio e Michelangelo qui mangiavano in osteria.
Mancano, ora ancor di più, quei tempi orgogliosi, quella fierezza, quella consapevolezza di essere calati proprio noi italiani in un unico complesso sistema culturale capace di essere nel medesimo istante grandioso e usuale , capace di rendere le nostre città storiche, le stesse nostre consuetudini di vita, palcoscenico e rappresentazione, naturale riferimento per la cultura dell’uomo.
A tanta e tale considerazione era destinata la cucina popolare tipica che si era praticamente pronti a difenderla in piazza.
Vale ricordare l’episodio proprio oggi in un tempo in cui la preoccupazione sanitaria mette a rischio non dico il successo, ma persino la sopravvivenza economica della ristorazione tipica di qualità.
Vale ricordarlo oggi mentre la spinta di una certa nuova cultura industriale internazionale, scientifica, tecnogastronomica si insinua profondamente erodendo l’anima delle consuetudini in favore delle “nuove tradizioni” o “nuove memorie” volendo mutare l’identità del nostro mondo, partendo dalle fondamenta stesse.
Questo pericoloso smottamento accade quando anche i più grandi chef vogliono insegnarci ad essere non trattoria ma mensa industriale, quando le istituzioni vogliono digitalizzare le economie della ristorazione e virarle in formule e-commerce, quando la spinta riorganizzatrice conduce alla replicabilità del franchising e appare capace di polverizzare la storia, l’identità familiare e l’impianto territoriale della ristorazione tipica, quando in definitiva sembra una conquista persino la ricomposizione dei resti della grande cucina Italiana raccolti in una scatolina delivery, piccola urna di cartone, pronta a viaggiare su e giù per l’Italia.
Ecco proprio l’efficentismo economico-digitale, lo sradicamento territoriale, la stessa sfida rivoluzionaria del delivery rappresentano con ogni probabilità la summa di una contemporaneità gastronomica standardizzata, acclamata, tanto sgargiante eppure avvilente, in profondo contrasto con i riferimenti culturali più prossimi alla nostra bella cultura gastronomica nazionale.
Tra i quali riferimenti ad esempio troviamo la dimensione umana, locale e sociale dell’impresa, l’etica valorizzatrice delle materie e dei talenti che promana dalla tradizione artigianale della bottega rinascimentale, l’unicità della piccola misura produttiva rispettosa della filiera locale, la storia inesauribile dello “stile tipico” formatosi e arricchitosi nella scuola e nell’apprendistato di generazioni e generazioni di “ragazzi di bottega” cresciuti all’ombra di cuochi-maestri di territori dalle mille differenti sfumature (biodiversità).
La cultura gastronomica tipica si rappresenta ancora nei nostri giorni in maniera ricca, stimolante e complessa, ben diversa da quella cucina che oggi ci si propone con la ripetitiva formula del copia incolla e con l’ossessione dell’ottimizzazione dello standard organizzativo e del marketing.
La vera cucina italiana chiama al prestigio di radici culturali e territoriali profonde, uniche al mondo. Per non morire “dentro” questa nostra nazione non può perdere il contatto con tale profondità.
Per tornare ai fatti dunque vi lascio una foto storica, bellissima e probabilmente poco nota: appaiono sul pulpito, in difesa della cultura delle trattorie romane, l’esilarante Franco Bracardi, il mitico Franco Lechner in arte Bombolo e l’indimenticabile Renato Nicolini Assessore alla Cultura del comune di Roma del Sindaco Giulio Carlo Argan.
Il terzetto precedeva di pochi minuti l’intervento di Renzo Arbore proprio lì, davanti al contestato modello culinario americano di nuova generazione.
Le espressioni popolari nella loro immediatezza riconducono sempre a sentimenti di profonda, dissacrante, divertente sincerità.
Sono certo che ancora oggi il grande Bombolo di fronte ad uno chef procedente con scatoletta delivery in dote avrebbe esclamato:
“A’ regazzi’… questo to magni te!
A me famme fa da tu’ madre ‘na bella carbonara e mettece er pecorino me reccomanno… che si nun sete capaci, vor dì che voi manco sete de ‘sto rione! … li mortacci vostra!!”
Vox Populi Vox Dei
di Valerio di Nattia
Ristorante Il Palmizio
Alba Adriatica – TE