Le Trattorie rappresentano le chiavi d’accesso ai tanti territori (terroir) italiani… E’ grazie all’esperienza che queste tavole offrono che si conoscono i paesaggi, le storie e i prodotti di quel luogo specifico.
Per spiegare questo ruolo della Trattoria possiamo parafrasare il capitolo che lo scrittore/cuoco Tommaso Melilli intitola Sapore di Frigo nel suo bestseller “I Conti con l’Oste“.
Leggiamo insieme questo vero e proprio manifesto della Trattoria Italiana:
“Sto cercando di capire perché oggi sentiamo tutti così tanto il bisogno di mangiare e bere «come una volta», e prima di tutto bisognerebbe capire quand’è stata, quella «volta».
Le epoche gloriose, in genere, durano poco più di cinque minuti, e così è stato per le osterie popolari in Italia. Oggi le percepiamo come qualcosa di antico, che viene dalla notte dei tempi, ma quelle trattorie sono nate soltanto nel dopoguerra, perché prima al ristorante ci andavano solo i pochi che se lo potevano permettere, e quei ristoranti facevano sostanzialmente cucina francese. Chi viaggiava si accontentava generalmente dell’unica zuppa a disposizione in quelle che si chiamavano osterie, e che in realtà erano il luogo dove ci si ubriacava, mangiando un po’ di salumi e del formaggio. Le trattorie popolari sono spuntate solo quando le persone hanno finalmente avuto i soldi per pagare il conto, e quindi negli anni Sessanta. Due terzi dei cittadini italiani dell’epoca erano figli di contadini, e per la prima volta molti di loro avevano i soldi per mangiare e scegliere, ogni giorno, quello che le loro madri e i loro padri avevano contribuito a produrre.
E io me le ricordo le trattorie di una volta che morivano. Soprattutto nelle città piccole e medie, le ho viste scomparire l’una dopo l’altra: la lista dei piatti che io e i miei amici ritenevamo commestibili si assottigliava di mese in mese, e a un certo punto riuscire a ordinare un piatto digeribile era diventato un gioco di società. Le lamentele degli osti testardi diventavano invece sempre più lunghe. Il conto che arrivava sul tavolo a fine serata dipendeva da quante litanie eravamo stati pronti ad ascoltare. Nelle campagne e intorno alle città, invece, molte di quelle trattorie non se ne sono mai andate, ma ci siamo dimenticati della loro esistenza. Molte sono cambiate, ogni giorno un po’ in peggio. Alcune sono rimaste molto simili ad allora, e sono luoghi preziosissimi, che senza dire niente a nessuno oggi stanno riemergendo in superficie come tante piccole città sommerse.
Quelle vecchie trattorie avevano un sacco di cose belle: costavano poco, era tutto molto saporito e servito in pesanti piatti di ceramica. Erano posti da cui nessuno ha mai preteso creatività o fantasia, perché non erano semplicemente necessari, e tanto meno erano previsti: il menu seguiva con naturalezza le materie prime di stagione e, soprattutto, le scadenze emotive e nostalgiche di chi stava in cucina. Secondo la latitudine, si aspettavano gli asparagi, i ricci di mare e i porcini con la stessa impazienza apprensiva con cui si aspetta il regalo di compleanno di un fidanzato sbadato: sei abbastanza certo che arriverà, ma magari non proprio il giorno in cui te l’aspetti. A seconda del clima e della geografia, si mangiavano trippe o cervelletti, pesci di lago che sapevano di erbe selvatiche oppure cozze pelose crude e limoni di mare. I vecchi erano felicissimi e i bambini terrorizzati, ma si spiegava loro che da grandi avrebbero capito. Il vino era il più delle volte ordinario, ma sincero e locale, e soprattutto non faceva venir voglia di strapparsi i capelli la mattina dopo.
Poi le cose hanno cominciato a poco a poco a cambiare: è arrivata la mucca pazza, che è stato il colpo di grazia, perché le frattaglie sono state vietate per qualche anno, e poi non sono tornate mai più; le trattorie a conduzione familiare sono cadute nelle mani di giovani eredi che hanno buttato i piatti di ceramica e hanno deciso di fare cucina creativa con piatti di design dozzinale, placche di lavagna, e un sacco di idee nuove in realtà già vecchie.
Più in generale, stava finendo di succedere una cosa che era cominciata più di quarant’anni fa. Nel 1979 nasceva una delle più importanti guide gastronomiche, cioè la Guida d’Italia dell’«Espresso». L’obiettivo dichiarato della guida era di raccontare una cucina italiana che fosse diversa da quella delle trattorie popolari con le tovaglie a quadretti. La cultura italiana del cibo, ricchissima ma completamente chiusa al resto del mondo, si stava rapidamente aprendo, cercando di scoprire i piatti degli altri con un po’ di coraggio e di curiosità nei giorni pari e con borbottii e scetticismo in quelli dispari. Tanto è cambiato da allora, e non escluso che, se fossi stato un giovane cuoco negli anni Settanta, mi sarei battuto per rendere la cucina italiana più internazionale e avrei visto nelle trattorie qualcosa di vecchio. È andata così, e negli anni Settanta io non c’ero.
L’aspetto interessante di tutto ciò è che, mentre la vecchia trattoria, in Italia, sopravviveva trascurata o addirittura
agonizzava, il resto del mondo cominciava a scoprire che la cucina italiana non è solo carbonare sbagliate e fettuccine Alfredo: la clientela delle grandi metropoli in giro per il mondo ha cominciato a esigere una cucina italiana vera, dove scoprire piatti più rari, con tante storie dietro e tanti gesti che per uno svedese o un americano risultano di una semplicità rivoluzionaria.
Chi è cresciuto in Italia, come me, quelle cose le sapeva fare, ma le dava per scontate, e ci siamo ritrovati nel giro di un decennio ad andare al ristorante rassegnati a essere sempre relativamente soddisfatti. Ci siamo ritrovati a pretendere la soluzione più comoda fra le molte mediocri, con la convinzione che comunque si mangia meglio a casa, dimenticando che quello che i ristoranti ci offrono dipende da ciò che noi, clienti, pretendiamo da loro.
La trattoria, come il bistrot, il sushi bar e l’hamburgheria, non sono semplicemente un modello di esercizio commerciale: le trattorie sono una forma di vita, ed è la forma che chiunque sia cresciuto in Italia si porta dentro ovunque vada, un calco della migliore cucina domestica della domenica.
La forma di vita alimentare che sto esplorando ha un’origine molto pura: c’è una famiglia o un gruppo di persone che amano far da mangiare e che credono di saperlo fare bene, quindi un bel giorno decidono di farlo anche per altri. Così nasce il modello gastronomico specifico della trattoria, e cioè un ristorante dove si mangia come a casa. Il problema è che cucinare a casa e al ristorante non è la stessa cosa, dal punto di vista tecnico e igienico: ci si metteva a tavola con la certezza di mangiare cose saporite e abbondanti, e si pagava il conto col sospetto che la nottata sarete stata difficile. Si spendeva poco, si mangiava bene quasi sempre. E non si digeriva quasi mai.
Non è così difficile conservare gli alimenti con cura: bastano due semplici macchinari. Due semplici strumenti risolvono la maggior parte dei rischi legati agli esseri estremamente piccoli: per impedire loro di andarsene a spasso e di stare all’aria aperta basta una macchina per il sottovuoto; per ridurre al minimo il tempo in cui gli alimenti sguazzano nella temperatura critica, cioè fra i 10 e i 60 gradi, basta un abbattitore di temperatura. Senza questi due strumenti, per nulla romantici ma essenziali, una cucina lavora nel xix secolo. Altro che guide gastronomiche e arbitrarie classifiche di qualità: basterebbe mettere degli adesivi sulle porte dei locali che ce li hanno (e che li usano) e sapremmo tutti dove si mangia davvero bene.
Detto questo, anche con tecniche moderne, non tutto può essere conservato indefinitamente: se in un menu ci sono quindici primi e dodici secondi ed è venerdì, è assai probabile che quel ragù e quell’arrosto siano in frigorifero da lunedì. Per non parlare delle verdure: mi spiace, ma una verdura sbollentata ieri e raffreddata male sa di piscio. Dovremmo imparare a giudicare i posti dove mangiamo da cosa servono come contorno: se c’è cura in quello, ce ne sarà inevitabilmente anche nel pesce e nella carne.
Questi problemi sono responsabilità dei ristoratori, ma anche di noi clienti: pretendere da un ristorante una scelta molto ampia nel menu significa rassegnarsi a mangiare cose vecchie, oppure surgelate. Ogni volta che decidiamo di non andare in un ristorante perché non c’è abbastanza scelta, c’è un giovane cuoco onesto che muore. Fra un’ampia scelta e la freschezza, la freschezza è sempre più importante. Anche perché la freschezza dei prodotti, cucinati e serviti il giorno stesso, è anche la freschezza delle idee: se ciò che avevi preparato ieri è finito oggi puoi e devi farti venire in mente un’altra vecchia ricetta che tutti avevano dimenticato.
Per me, significa svegliarmi la mattina, vedere che piove e fa freddo, e mettere tutta l’attenzione e la cura possibile in un bel minestrone.
La trattoria è una questione di libertà: libertà per chi mangia. Ma anche per chi cucina.”
Tratto da “I Conti con l’Oste” di Tommaso Melilli
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nella foto di copertina: portachiavi personalizzati stampati in Alta Qualità da Sticker Mule