28 marzo ventiventi. Sono passati venti giorni…
Abbiamo avuto venti gradi e venti centimetri di neve.
In questo tempo abbiamo fatto e visto fare di tutto, tutto giusto e tutto sbagliato. Siamo stati giardinieri, hikers, casalinghi, lettori, scrittori, spettatori, ciappinari. Abbiamo letto decine di decreti, partecipato a chat e conference call, parlato con amici e collaboratori, consulenti e commercialisti.
Abbiamo sfogliato libri vecchi di mille anni e riviste online, guardato serie televisive e partite di calcio degli anni ‘50 oppure documentari meravigliosi ed abbiamo ringraziato chi ci ha permesso di farlo gratis in questo momento.
Abbiamo visto cuochi cucinare e chiacchierare in mille dirette Instagram; artisti e gente comune cantare in salotto ed in terrazza; filosofi, tuttologi ed economisti dire la loro ovunque; gente comune accanirsi sui social contro chi esce di casa, contro Conte, contro chi ha o non ha la mascherina, contro.
Improvvisamente, dopo pochi giorni, giornate che ci sembravano interminabili sono ridiventate troppo corte, esattamente come prima. Troppa roba da fare, troppe possibilità.
Forse ci stiamo perdendo il vero lusso di questa quarantena: il tempo per pensare, quello che ci è sempre mancato. Dal pensiero nascono poi piccole e grandi cose; è il dono gratuito più incredibile che abbiamo ricevuto, secondo solo al sogno. Allora forse meglio far molto meno, o niente, per una volta nella vita. E pensare o sognare.
Ho pensato. Ho pensato di proporre menu da consegnare nelle case. Tutti i giorni o solo occasionalmente, creando eventi. Ho pensato che avremmo fatto contenti tanti clienti ma messo a rischio la salute dei ragazzi addetti alle consegne, proprio nel periodo di picco pandemico.
Ho pensato di non chieder loro di farlo anche se sono certo che avrebbero accettato. Peccato, mi sarebbe piaciuto confortare anche solo per un giorno chi ci ha dato fiducia e frequentato per decenni. Sono curioso e preoccupato
Ho pensato che se ci faranno star chiusi ancora per tanto ci ripenserò, magari in un momento più sicuro, forse a festeggiare la Pasqua, la Liberazione o i Lavoratori.
Ho pensato che sarebbe bello poter ridare lo stesso lavoro e gli stessi stipendi a tutti quelli che erano con noi in trattoria l’ultima sera, l’otto marzo. So che sarà difficile; per un po’ la maggior parte del mondo e la sua gente saranno all’angolo con gli occhi gonfi come un pugile a fine carriera, al tredicesimo round. Come un ciclista col fiato corto e le gambe molli sul Mont Ventoux sotto il sole di Luglio.
Pugilato e ciclismo, sport di fatica, sudore e lacrime.
Ho pensato: ripartiamo da lì. Ridiventiamo bravi incassatori con la gamba solida e gli addominali di ferro e generosi gregari che portano la borraccia ed il panino a chi lo apprezza e a chi ti apprezza. Forse, in questo nuovo mondo i capitani, gli assi effimeri, belli e impomatati ci faranno un po’ sorridere. E di sorrisi, ne son certo, ci sarà tanto bisogno.
Ho sognato che il Mondodopo non sarà più lo stesso ma per chi ci sarà, sarà più bello, più vero, con meno cattiveria e più cultura. Ci si rapporterà con toni più garbati, con meno IO, con più noi e più condivisione. Con più artigiani, contadini e allevatori veri, giustamente remunerati e giustamente interpretati da noi ristoratori. Con piccole botteghe di campagna a rifiorire vendendo cose buone senza le difficoltà create da una burocrazia ottusa. Ho sognato che il telefono squillerà di continuo e dall’altro capo il nuovo ospite chiederà gli ingredienti, la provenienza di un cibo, l’idea di cucina prima del costo di un menu.
In quel sogno eravamo in tanti e non ci saremmo mai voluti svegliare.
Peccato, ma non del tutto. Rewind.
Alberto Bettini*
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*Segretario dell’associazione PREMIATE TRATTORIE ITALIANE
e titolare della Trattoria da Amerigo 1934 di Savigno, in provincia di Bologna.